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martedì 21 agosto 2012

Tratto da:

http://www.investireoggi.it/attualita/crisi-delleuro-e-monete-alternative-piu-di-4000-comunita-hanno-scelto-di-rinunciare-ai-soldi/
Crisi dell’Euro e monete alternative: più di 4000 comunità hanno scelto di rinunciare ai soldi
Scec, Simec e miniassegni: è il ritorno del baratto in chiave moderna?





Da tempo ormai si parla di crisi dell’Euro e si studiano soluzioni alternative alla moneta unica. C’è chi guarda indietro rievocando il ritorno dell’amata-odiata Lira e chi invece si organizza diversamente, con metodi tradizionali ma riletti in chiave moderna.

Pagare senza soldi: la crisi fa di necessità virtù
E se il problema maggiore in tempo di crisi è la mancanza di soldi contanti ecco rispuntare metodi di pagamento alternativi, ispirati all’antenato di tutti gli scambi commerciali, il baratto. Attualmente si contano circa 4 mila comunità che utilizzano metodi di scambio alternativi per non fermare l’economia dinanzi alla crisi che avanza. I numeri parlano chiaro: basti pensare che nel 1990 le comunità indipendenti organizzate in questo modo erano appena un centinaio.

Scec, simec e miniassegni: la risposta italiana all’euro?
In Italia sono state nella storia prevalentemente tre le valute alternative anticrisi adoperate: i miniassegni, i Simec e lo Scec (in ordine temporale).
Lo Scec (acronimo per Solidarietà ChE Cammina) è stato inventato a Napoli nel 2005. Si tratta in sostanza di buoni sconto del valore nominale di un euro che possono essere scambiati (anche cumulativamente ma comunque in maniera percentuale al valore del bene) presso gli esercizi aderenti all’iniziativa. Non si tratta quindi propriamente di una nuova valuta ideale ma di un buono sconto che si esprime sempre in euro. Attualmente sono 11 le Regioni italiane in cui è stato ammesso lo Scec. Uno dei primi esempi istituzionali è stato il IV Municipio, nel quartiere Montesacro. A differenza dei buoni sconto tradizionali lo scec dopo l’utilizzo non va stracciato ma può essere riutilizzato: i commercianti possono darlo come resto ai clienti che aderiscono al circuito e questi ultimi possono riusarlo proprio come fosse una moneta da un euro.
Ben più antichi sono invece gli ormai superati miniassegni (chiamati così proprio per le dimensioni ridotte rispetto a quelli tradizionali), istituiti nel 1975 e poi spariti dopo tre anni quando il Poligrafico dello Stato fu in grado di sopperire alla carenza di monete per via dell’inflazione. I mini assegni infatti, nati per sopperire alla penuria di monete dal taglio piccolo, si rivelarono un vero affare per le banche: molti di quelli emessi infatti non tornarono indietro per la conversione perché si erano deteriorati, erano andati persi oppure venivano collezionati.
Il Simec (acronimo di Simbolo Econometrico di valore indotto) è invece un sistema attivato nel 2000 a Guardiagrele e inventato dal professor Giacinto Auriti, forte sostenitore della teoria del valore convenzionale della moneta: scambiati con valore paritario a quello delle lire per pensioni e salari venivano messi in commercio con  il doppio del valore originario. Il tribunale di Chieti interruppe bruscamente la pratica tramite ordinanza di sequestro dietro pressione della Banca d’Italia.

E negli altri Paesi?
Ma la crisi non è certamente un problema esclusivamente italiano. I sistemi alternativi studiati variano di Paese in Paese, pur avendo spesso punti in comune. Nel Regno Unito e in Australia la maggior parte delle comunità usa
il Lets (Local Exchange Trading System) o il More (Member Organised Resource Exchange system); in Francia e in altri Paesi di lingua francese si è fatto ricorso al Sel (Système d’Echange Local) e al Tronc de Services; il Rocs (Robust Complementary Community Currency System) e i Rers (Réseaux d’échange Réciproque des Savoirs) sono diffusi in Francia, Svizzera, Belgio e Olanda, Svizzera e Spagna, i Tauschring e il Wir in Germania e Svizzera. Ma ci sono anche i Ducati immaginari, il Green dollar, gli Hureai kippu, gli Ithaca hours e gli Hero dollar.

Crisi dell'Euro e Monete alternative


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Crisi dell’Euro e monete alternative: più di 4000 comunità hanno scelto di rinunciare ai soldi
Scec, Simec e miniassegni: è il ritorno del baratto in chiave moderna?




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Da tempo ormai si parla di crisi dell’Euro e si studiano soluzioni alternative alla moneta unica. C’è chi guarda indietro rievocando il ritorno dell’amata-odiata Lira e chi invece si organizza diversamente, con metodi tradizionali ma riletti in chiave moderna.

Pagare senza soldi: la crisi fa di necessità virtù
E se il problema maggiore in tempo di crisi è la mancanza di soldi contanti ecco rispuntare metodi di pagamento alternativi, ispirati all’antenato di tutti gli scambi commerciali, il baratto. Attualmente si contano circa 4 mila comunità che utilizzano metodi di scambio alternativi per non fermare l’economia dinanzi alla crisi che avanza. I numeri parlano chiaro: basti pensare che nel 1990 le comunità indipendenti organizzate in questo modo erano appena un centinaio.

Scec, simec e miniassegni: la risposta italiana all’euro?
In Italia sono state nella storia prevalentemente tre le valute alternative anticrisi adoperate: i miniassegni, i Simec e lo Scec (in ordine temporale).
Lo Scec (acronimo per Solidarietà ChE Cammina) è stato inventato a Napoli nel 2005. Si tratta in sostanza di buoni sconto del valore nominale di un euro che possono essere scambiati (anche cumulativamente ma comunque in maniera percentuale al valore del bene) presso gli esercizi aderenti all’iniziativa. Non si tratta quindi propriamente di una nuova valuta ideale ma di un buono sconto che si esprime sempre in euro. Attualmente sono 11 le Regioni italiane in cui è stato ammesso lo Scec. Uno dei primi esempi istituzionali è stato il IV Municipio, nel quartiere Montesacro. A differenza dei buoni sconto tradizionali lo scec dopo l’utilizzo non va stracciato ma può essere riutilizzato: i commercianti possono darlo come resto ai clienti che aderiscono al circuito e questi ultimi possono riusarlo proprio come fosse una moneta da un euro.
Ben più antichi sono invece gli ormai superati miniassegni (chiamati così proprio per le dimensioni ridotte rispetto a quelli tradizionali), istituiti nel 1975 e poi spariti dopo tre anni quando il Poligrafico dello Stato fu in grado di sopperire alla carenza di monete per via dell’inflazione. I mini assegni infatti, nati per sopperire alla penuria di monete dal taglio piccolo, si rivelarono un vero affare per le banche: molti di quelli emessi infatti non tornarono indietro per la conversione perché si erano deteriorati, erano andati persi oppure venivano collezionati.
Il Simec (acronimo di Simbolo Econometrico di valore indotto) è invece un sistema attivato nel 2000 a Guardiagrele e inventato dal professor Giacinto Auriti, forte sostenitore della teoria del valore convenzionale della moneta: scambiati con valore paritario a quello delle lire per pensioni e salari venivano messi in commercio con  il doppio del valore originario. Il tribunale di Chieti interruppe bruscamente la pratica tramite ordinanza di sequestro dietro pressione della Banca d’Italia.

E negli altri Paesi?
Ma la crisi non è certamente un problema esclusivamente italiano. I sistemi alternativi studiati variano di Paese in Paese, pur avendo spesso punti in comune. Nel Regno Unito e in Australia la maggior parte delle comunità usa
il Lets (Local Exchange Trading System) o il More (Member Organised Resource Exchange system); in Francia e in altri Paesi di lingua francese si è fatto ricorso al Sel (Système d’Echange Local) e al Tronc de Services; il Rocs (Robust Complementary Community Currency System) e i Rers (Réseaux d’échange Réciproque des Savoirs) sono diffusi in Francia, Svizzera, Belgio e Olanda, Svizzera e Spagna, i Tauschring e il Wir in Germania e Svizzera. Ma ci sono anche i Ducati immaginari, il Green dollar, gli Hureai kippu, gli Ithaca hours e gli Hero dollar.

venerdì 10 agosto 2012

Leonardo Vecchi risponde all'articolo "Se i soldi sono nostri..."

Monday 6 august 2012
vecchi.jpgColgo l'occasione per presentarvi l'amico musicista e collega
 Leonardo Vecchi, cantautore di Piacenza molto bravo.
 
Leonardo Vecchi - In risposta all'articolo "Se i soldi sono nostri..."
 
Non è facile replicare ad un intervento di Nereo Villa in tema di sovranità monetaria. Ma è abbastanza irresistibile da spingermi a farlo. Vorrei però argomentare su un piano
più pragmatico che teorico. Premetto che condivido con Villa e i sempre più numerosi cittadini critici sul fenomeno dell'emissione monetaria “a debito” i presupposti di ostilità nei confronti della creazione della moneta. Poiché diventa sempre più evidente, principalmente grazie alla rete, che la moneta non è di proprietà del popolo, ossia che la sovranità monetaria è esclusivamente delle Banche Centrali, presto o tardi i cittadini dovranno porsi seriamente il problema che oggi non siamo più in quattro gatti a porci, a meno ché non scelgano di degradarsi definitivamente a sudditi. Il senso comune vuole che l'idea di banca centrale sia associata a qualcosa di pubblico, ovvero che la BCE o la FED siano gestite e controllate dalle Nazioni, dunque attraverso governi democraticamente eletti, che riconoscono la moneta da loro emessa.

Niente di più lontano dalla realtà, purtroppo. Già Marx, nel suo Capitale, quando ad emettere moneta erano le banche nazionali, definiva queste entità impropriamente “agghindate di denominazione nazionale”. Allora, come oggi, anche se sono intercorse notevoli evoluzioni, le banche centrali sono controllate dalle banche nazionali, a loro volta controllate da istituti bancari privati e assicurazioni.

Il pre-politico Grillo che diede voce alla teoria del prof. Giacinto Auriti domandandosi comicamente e provocatoriamente “se la moneta è la nostra, perché ce la prestano?”, ha dichiarato di aver tagliato questo intervento nei suoi spettacoli, nonostante il meccanismo di emissione di denaro non sia cambiato di una virgola, perché risultava troppo inquietante per pubblico. C'è chi sostiene che in realtà la scelta di non parlare più del signoraggio sia conseguente a pressioni subite dal grande comunicatore. Anni fa, prima che nascesse il MoVimento 5 Stelle, al Palabanca di Le Mose (!) al primo raduno nazionale dei meetup amici di Beppe Grillo, aggiunse che questa truffa ha dimensioni talmente enormi in una carenza totale di strumenti risolutivi e di pensiero da non poter essere considerata, per così dire, all'ordine del giorno. Non ricordo le parole esatte, ma il senso fu questo. Presi allora la parola avviando una discussione sulle monete complementari, e scoprii che l'argomento era ben noto, oltreché a Grillo, anche a molti presenti. Negli anni successivi fu sperimentato lo SCEC, che oggi viene considerato una realtà (arcipelago scec) che gode di attenzione sul piano nazionale.

Lo SCEC (acronimo di “sconto che cammina”, o di “solidarietà che cammina”, ma non è importante) consiste in un “buono” che ricorda i soldi del Monopoli, è distribuito gratuitamente agli associati di arcipelagoscec e dà luogo ad uno sconto che varia dal 10% al 30% applicabile fra associati professionisti e commercianti. Il vetraio che vuole avvalersi dello SCEC, a fronte di un servizio da € 100, concederà uno sconto, poniamo, del 20% pretendendo € 80 + SCEC 20, di cui potrà servirsi per pagare l'avvocato, piuttosto che il fabbro o il fornaio associato a questa rete. Insomma più SCEC circolano, meno Euri si sborsano.

Questa realtà non costituisce certo una soluzione ai problemi derivanti dal signoraggio bancario, ma dimostra, a livello italiano, che qualcosa si può fare su scala locale.

Diversa e ben più avanzata, nel campo delle monete complementari, è la realtà del WirGeld in Svizzera, di cui ha parlato anche la Gabanelli su Report. Addirittura molti svizzeri, notoriamente tutt'altro che indigenti, ripongono più fiducia nel Wir Geld che nell'Euro e nel loro stesso Franco. Lo usano, semplicemente perché ci credono. Il valore di una moneta è legata alla sua credibilità. La Wir Bank ha origini lontane, è sorta nel 1934, all’apice della crisi economica incominciata nel ’29, con lo scopo di rimediare alla scarsa disponibilità di denaro e ai problemi di circolazione monetaria, di favorire lo scambio tra le imprese in crisi di liquidità e di fatturato, di favorire la ripresa e lo sviluppo economico. Ma la Wir non è stata la classica soluzione anti crisi “usa e getta”, perchè oggi è una realtà che conta 60.000 Piccole Medie Imprese che sfruttano la moneta complementare Wir per aumentare il proprio fatturato, creare ricchezza in più rispetto a quella creata con la moneta ufficiale.

Pagando in Wir si acquistano beni e servizi senza spendere franchi svizzeri da un’azienda facente parte del circuito; l’acquisto comporta un debito estinguibile semplicemente con la vendita di beni e servizi propri a una qualsiasi altra azienda del circuito; allo stesso modo chi vende acquisisce un credito spendibile con acquisti sempre all’interno del circuito: un circolo virtuoso che crea sviluppo economico, per le aziende associate, tanto più elevato quanto più velocemente circola la Wir.

La moneta complementare esiste, non è fantascienza, è realtà. Credo sia il solo strumento che, se conosciuto e adoperato, possa farci superare, attraverso una fattiva ridefinizione del concetto stesso di moneta, la devastante crisi che subiamo grazie alle banche.

Serge Latouche: "Italia, serve la bancarotta"

Serge Latouche: "Italia, serve la bancarotta"

 Tratto da: http://www.megachip.info/tematiche/kill-pil/8545-qitalia-serve-la-bancarottaq.html

 

Intervista a Serge Latouche. Il debito non sarà mai ripagato: meglio ripartire da zero.
Serge Latouche 20120717
di Giovanna Faggionato - www.lettera43.it
Una lunga intervista rilasciata a Lettera43 da Serge Latouche, tra i principali sostenitori del pensiero della decrescita nel mondo. La crisi della civiltà occidentale e le illusioni europeiste. Il debito pubblico e il futuro dell'Italia. La decrescita e la necessità di una riconversione ecologica. La politica della transizione ed una personalissima rivisitazione del concetto di democrazia.
"Sappiamo già che l'attuale sistema crollerà tra il 2030 e il 2070. Il vero esercizio di fantascienza è prevedere che cosa succederà tra cinque anni."
DOMANDA. Lei ha un'idea?
RISPOSTA. L'Europa nata nel Dopoguerra farà la fine del Sacro Romano Impero di Carlo Magno che cercò di restaurare un regno crollato, durò per 50 anni e fu travolto dai barbari.
D. Che cosa c'entra l'impero romano?
Crollò alla fine del V secolo, ma non morì: continuò a sopravvivere per centinaia di anni con Carlo Magno, l'impero d'Oriente e poi quello germanico. Un declino proseguito nel tempo, con disastri in successione. Come succederà a noi.
D. È la fine della globalizzazione?
R. Io la considero una crisi di civiltà, della civiltà occidentale. Solo che, visto che l'Occidente è mondializzato, si tratta di crisi globale. Ecologica, culturale e sociale insieme.
D. Più di un crollo finanziario...
R. Se vogliamo andare oltre è la crisi dell'Antropocene: l'era in cui l'uomo ha cominciato a modificare e perturbare l'ecosistema.
D. E il sogno degli Stati Uniti europei?
R. È un'illusione. Perché è solo un prodotto della globalizzazione: non hanno costruito un'Unione, ma un mercato liberista.
D. Che fine farà il Vecchio continente?
R. L'Europa è schiacciata tra due movimenti. Uno politico e centrifugo che si è sviluppato anche in Italia con la stessa Padania. E uno economico e centripeto, la globalizzazione.
D. Per ora l'economia batte la politica...
R. Sì, il movimento centripeto ha il sopravvento. Ma è anche quello che nel lungo periodo andrà a crollare. Non può funzionare senza il petrolio e il blocco delle risorse materiali. Alla fine, con tutta probabilità l'Europa si dividerà in macro regioni autonome.
D. Come ci arriveremo?
R. La barca affonda e andremo giù tutti insieme. Ma non è detto che questo avverrà senza violenza e dolore.
D. Parla del conflitto sociale in Grecia e Spagna?
R. Ecco, putroppo siamo già dentro il capitalismo catastrofico. È solo l'inizio del processo, ma vediamo già gli effetti del mix di austerità e crescita voluto dai leader europei.
D. È comunque meglio della sola austerità...
R. Crede che l'imperativo della crescita funzioni? Basta guardare alla Francia: questo governo socialista vuole allo stesso tempo la prosperità e l'austerità. Ma non riuscirà a ottenere la crescita. O, se avverrà, sarà per pochi. Mentre l'austerità è sicura per molti.
D. Perché?
R. Perché non hanno scelta.
D. In che senso?
R. Sono chiusi dentro questo paradigma del produttivismo, del Prodotto interno lordo (Pil). È per questo che la decrescita è una rivoluzione. Perché prima di tutto è un cambiamento di paradigma.
D. Facile dirlo. Ma lei che cosa farebbe se fosse il premier italiano?
R. L'Italia dovrebbe andare in bancarotta.
"Il debito italiano? Non sarà mai ripagato"
DOMANDA. Che cosa intende?
RISPOSTA. Pensi al debito.
D. Secondo l'Fmi quello italiano è quasi al 140% del Pil.
R. Appunto: non sarà ripagato, lo sanno tutti. Ne è consapevole anche Mario Monti. Il problema, per l'attuale classe dirigente, non è ripagare il debito. Ma è fingere di poter continuare il gioco: cioè ottenere prestiti e rilanciare un'economia che è solo speculativa.
D. Quali sono le prime cinque misure che adotterebbe al posto di Monti?
R. Innanzitutto, cancellerei il debito. Parlo come teorico, so che ci sono cose che Monti non potrebbe fare comunque, neppure se fosse di sinistra o un decrescente. Ma sto parlando di bancarotta dello Stato.
D. La bancarotta è la soluzione?
R. È più che altro la condizione per trovare le soluzioni.
D. In che senso?
R. Non porta necessariamente alla soluzione, anzi in un primo momento le cose possono peggiorare. Ma non c'è altro modo, perché non esiste via d'uscita dentro la gabbia di ferro del sistema attuale.
L'Italia non sarebbe la prima né l'ultima. Tutti quelli che l'hanno fatto si sono sentiti meglio, da Carlo V all'Argentina.
D. Ma l'Argentina non era dentro una moneta unica.
R. Questo significherebbe uscire dall'euro, ovviamente, dentro non si può fare niente. Per questo dico che parlo come teorico: nemmeno i greci hanno avuto il coraggio di abbandonare l'Unione.
D. Siamo al terzo punto allora: uscire dall'euro, cancellare il debito e poi?
R. Rilocalizzare l'attività. C'è tutto un sistema di piccole imprese, di saper fare diffuso, che è stato distrutto dalla concorrenza globale.
D. Sì, ma come si fa?
R. Devo usare una parola che in Italia fa sempre paura: serve una politica risolutamente protezionista.
D. Su questo, il dibattito è annoso...
R. Esiste un cattivo protezionismo, è vero. Ma c'è anche un cattivissimo libero scambio. Mentre esiste un buon protezionismo, ma non un buon libero scambio.
D. Perché no?
R. Perché la concorrenza leale sempre invocata non esiste. E non esisterà mai. Semplicemente perché tutti i Paesi sono diversi. Come si può competere con la Cina? È una barzelletta.
D. Parla come se facesse parte della Lega Nord.
R. Lo so, lo so. E anche come uno del Front National. Sa perché ha successo l'estrema destra?
D. Me lo dica lei...
R. Perché non tutto quel che dicono è stupido. C'è una parte insopportabile, ma se sono popolari - e lo saranno sempre di più - è perché hanno capito alcune cose, hanno ragione. È questo che fa paura.
D. Quindi qual è la ricetta della decrescita?
R. Il protezionismo ci permette di non essere competitivi per forza. Se lo siamo in alcuni settori, bene. Ma possiamo anche sviluppare produzioni non concorrenziali. Stimoliamo la concorrenza all'interno, ma con Paesi che hanno altri sistemi sociali, altre norme ambientali, altri livelli salariali, questo non è possibile. D'altra parte, è stata l'eccessiva specializzazione a renderci così fragili.
D. Siamo alla quarta misura, quindi.
R. La tragedia attuale, per me, è soprattutto la disoccupazione.
D. E come pensa di risolverla?
R. Lavorando meno, ma lavorando tutti.
D. Una formula già sentita...
R. Sì, ma ci dicevano anche che la concorrenza attuale ci avrebbe fatto lavorare di più per guadagnare di più, come ha dichiarato quello sciagurato di Nicolas Sarkozy. E invece ci fa lavorare di più e guadagnare sempre meno: questo è sotto gli occhi di tutti.
D. Ma è una questione di denaro?
R. No, si tratta di vivere. Dobbiamo ritrovare il tempo per dedicarci al resto, alla vita. Questa è un'utopia, ma l'utopia concreta della decrescita: superare il lavoro.
"La decrescita: ripartire dalla terra, eliminando le attività nocive"
DOMANDA. Sì, ma come?
RISPOSTA. Partendo dalla riconversione ecologica. Tornando a un'agricoltura contadina, senza pesticidi e concimi chimici. In questo modo, la produttività per l'uomo sarà più bassa, ma si creeranno milioni di posti di lavoro nel settore agricolo. E questa è la quinta misura.
D. Basta l'agricoltura?
R. Dobbiamo affrontare la fine degli idrocarburi, sviluppare le energie rinnovabili e rinconvertire le attività parassitarie che danneggiano l'ambiente.
D. Per esempio?
R. Le fabbriche di automobili, che oggi sono in crisi.
D. Peugeot ha annunciato 8 mila licenziamenti...
R. Bisognava aspettarselo da anni. Si sa che l'industria dell'auto non ha futuro: con lo stesso know how potrebbero essere trasformati in stabilimenti che producono sistemi di cogenerazione.
D. Parla di una globale ristrutturazione del mercato del lavoro?
R. La quota di occupati in agricoltura potrebbe arrivare al 10%. Ci sono industrie nocive come l'automobile, il nucleare, la grande distribuzione che vanno ripensate. E c'è la necessità di una rinconversione energetica. In Germania, con le energie rinnovabili hanno creato decine di migliaia di posti di lavoro.
D. Ma sono dati contestati...
R. Il dibattito è aperto: si dice che chiudere le centrali nucleari francesi cancellerà 30 mila posti di lavoro ma, allo stesso tempo, prima bisogna smantellare. E nessuno lo sa fare. Quanti posti di lavoro si potrebbero creare allora?
D. E la grande distribuzione?
R. Sicuramente ha effetti distruttivi per l'ambiente e alimenta un alto tasso di spreco alimentare, pari a circa il 40% della produzione.
D. E allora?
R. Cancellarla significa essere pronti a ripensare tutto il sistema della città e soprattutto delle periferie.
D. Come?
R. La gente ha bisogno di piccoli negozi. Di fare la spesa più spesso, con più tempo a disposizione. Quando si comincia a cambiare un anello, come in una catena cambia tutto.
D. E i trasporti?
R. Dobbiamo pensare che il 99% dell'umanità ha passato la propria vita senza allontanarsi più di 30 chilometri dal proprio luogo di nascita. Quelli che si sono spostati di più, cioè noi, sono solo l'1%. Anche questo è un fenomeno molto recente e la maggioranza delle persone non ne soffrirà, poi ci saranno sempre i grandi viaggiatori alla Marco Polo.
D. Ne è certo?
R. È stata la pubblicità a creare il turismo di massa. In ogni modo, con la fine del petrolio, non ci sarà il traffico aereo di oggi, i trasporti costeranno sempre di più, andranno meno veloce. Muoversi sarà sempre più difficile.
D. E a livello fiscale?
R. Bisognerebbe introdurre una tassazione diretta e progressiva. Che può arrivare anche al 100%, se i redditi superano un certo livello. E poi una tassazione sul sovraconsumo dei beni comuni. A partire dall'acqua.
"Bisogna limitare i bisogni per soddisfarli davvero"
DOMANDA. Quindi meno lavoro e più agricoltura. Per ottenere cosa?
RISPOSTA. Un mondo di abbondanza frugale.
D. Cioè?
R. Una società capace di non creare bisogni inutili, ma di soddisfarli. E per soddisfarli, bisogna limitarli.
D. Le sembra possibile, quando gli operai cinesi si suicidano per un iPad?
R. In una società sana non esiste questa forma di patologia dell'insoddisfazione. Ci può essere una forma di seduzione, ma non un'insoddisfazione permanente. Questo fenomeno è esacerbato dalla pubblicità.
D. Cioè?
R. Ci convince che siamo insoddisfatti di ciò che abbiamo, per farci desiderare ciò che non abbiamo.
D. Vorrebbe spazzare via il marketing?
R. Una delle prime misure della società della decrescita riguarda la pubblicità: non si tratta di cancellarla - perché non siamo terroristi - ma di tassarla fortemente, questo sì.
D. Con che motivazione?
R. È lo strumento di una gigantesca manipolazione, il veicolo della colonizzazione dell'immaginario.
D. E la finanza che rappresenta il 10% del Pil britannico?
R. Penso che questa crollerà da sola. Sarebbe già successo se questi sciagurati di governi non avessero salvato le banche.
D. Che cosa intende?
R. È colossale quello che è stato fatto per le banche negli Usa: secondo l'Ocse, 11.400 miliardi di dollari di fondi pubblici sono stati destinati agli istituti di credito.
D. Se facciamo crollare le banche si affossa il sistema...
R. Sì, meglio così. Abbiamo bisogno che il sistema crolli.
D. E i cittadini?
R. Dobbiamo pensare a come riorganizzare il funzionamento della società. Ma bisogna ricordarsi che questo sistema così come lo conosciamo è piuttosto recente.
D. Quanto?
R. Non ha più di 30-40 anni, prima era un sistema capitalista, ma non funzionava su queste basi finanziarie.
D. Che misure bisognerebbe adottare?
R. Il primo passo, prima di rimettere in discussione l'intero sistema bancario, è cancellare il mercato dei futures: pura speculazione. Un economista francese, Friederic Lordon, ha anche proposto di chiudere le Borse. E non sarebbe un'idea stupida.
D. Che cosa succede alle società che ci lavorano? E ai dipendenti?
R. La situazione attuale è talmente tragica che possiamo affrontare con serenità anche un cambiamento difficile.
D. Nella società della decrescita circola denaro?
R. La moneta è un bene comune che favorisce lo scambio tra i cittadini. Ma se è un bene comune non deve essere privatizzata. Le banche sono degli enti privati. E allora dico sempre che noi vogliamo riappropriarci della moneta.
D. Come?
R. Magari partendo dai sistemi di scambio locali che utilizzano monete regionali. Come ha funzionato per due o tre anni in Argentina, dopo il crollo del peso.
D. E chi governa il commercio?
R. Diciamo che sarà necessario trovare un coordinamento tra le varie autonomie.
D. Ma nel suo modello ogni regione fa da sé?
R. Ogni Paese deve trovare la sua strada. Una volta che siamo riusciti a uscire dal mondo del pensiero unico, dell'homo oeconomicus, a una sola dimensione, allora ritroviamo la diversità. Ogni cultura ha il suo modo di concepire e realizzare la felicità.
D. Esistono già esperienze in questa direzione?
R. In Sud America sono sulla strada giusta. In Ecuador e Bolivia, ispirandosi alla cultura india, hanno inserito nella Costituzione il principio del bien vivìr: del buon vivere. Ma, con la crisi, la decrescita ha avuto un successo incredibile anche in Giappone
D. Come mai?
R. I giapponesi stanno riscoprendo i valori del buddismo zen che si basa sul principio di autolimitazione. E sono convinto che la stessa cosa potrebbe succedere in Cina nei prossimi anni, anche attraverso il confucianesimo.
D. La Cina però è anche la più grande fabbrica del mondo...
R. Lì la crisi è già arrivata. La situazione cinese è bifronte: 200 milioni di abitanti hanno un livello di vita quasi occidentale e altri 700 milioni sono stati proletarizzati. Cacciati dalla terra, si accumulano nelle periferie delle metropoli, dove c'è un tasso di suicidi altissimo.
D. Ma l'economia continua comunque a crescere.
R. Anche il ministro dell'Ambiente cinese ha riconosciuto che se si dovesse sottrarre dal Pil di Pechino la quota di distruzione dell'ambiente questo calerebbe del 12%.
"La democrazia è un'utopia: il bene comune è più importante"

DOMANDA. Come immagina la transizione?
RISPOSTA. Può avvenire spontaneamente, dolcemente. Ma anche in un modo violento.
D. Lei sogna la democrazia diretta?
R. Se si deve prendere la parola sul serio, ha senso solo la democrazia diretta. Ma direi che su questo punto, recentemente, le mie idee sono cambiate.
D. In che direzione?
R. Prima immaginavo un'organizzazione piramidale con alla base piccole democrazie locali e delegati al livello superiore.
D. E ora?
R. Oggi penso che la democrazia sia un'utopia che ha senso come direzione. Ma la cosa importante è che il potere, quale che sia, porti avanti una politica che corrisponde al bene comune, alla volontà popolare, anche se si tratta di una dittatura o di un dispotismo illuminato.
D. Si spieghi meglio.
R. Norberto Bobbio si chiedeva quale è la differenza tra un buono e un cattivo governo. Il primo lavora per il bene comune. Il secondo lo fa per se stesso. Questa è la vera differenza.
D. Va bene, ma come si ottiene un buon governo?
R. Con un contropotere forte. Un sistema è democratico - non è la democrazia, attenzione, ma è democratico - quando il popolo ha la possibilità di fare pressione sul governo, qualunque esso sia, in modo da far pesare le proprie esigenze e idee.
D. Ma non sta rinnegando la democrazia?
R. L'ideale sarebbe naturalmente l'autogoverno del popolo, ma questo è un sogno che forse non arriverà mai.
D. Non pensa alla presa del potere?
R. Gandhi l'aveva spiegato a proposito del suo Paese: «Al limite gli inglesi possono restare a governare, ma allora devono fare una politica che corrisponde alla volontà dell'India. Meglio avere degli inglesi piuttosto che degli indiani corrotti». Mi sembrano parole di saggezza.
D. Sa che Silvio Berlusconi vuole tornare in politica?
R. Ah, lo so, ma lui è pazzo.
(Parigi, 17 Luglio 2012)
Fonte: http://www.lettera43.it/economia/macro/italia-serve-la-bancarotta_4367557970.htm

giovedì 2 agosto 2012

Banche Armate

Tratto da: http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=3446


In anteprima, la nuova lista delle banche armate italiane Dalla Relazione ufficiale sull'export di armi 2011 (anticipata da un rapporto stringato ed incompleto) ecco spuntare i nomi delle banche più coinvolte nel settore: Deutsche Bank e BNL-BNP Paribas si confermano in testa alla lista.
Dopo qualche ulteriore giorno di attesa, dopo i primi dati raccolti nel Rapporto introduttivo della Presidenza del Consiglio già arrivato con qualche ritardo, siamo finalmente entrati in possesso dei voluminosi tomi che compongono la Relazione al Parlamento sull'export di armi.
E cosa ci dicono i numeri del 2011? Viene confermata una diffusa problematicità a riguardo dei tipi di armamento e soprattutto delle loro destinazioni in aree "calde" e problematiche del globo. Non si possono prendere sotto gamba forniture come quelle di navi e lacrimogeni all'Algeria o elicotteri e fucili al Turkmenistan, e per questo la discussione in sede di opinione pubblica e di Parlamento è davvero fondamentale.

Per quanto riguarda l'appoggio bancario alla vendita estera dei nostri sistemi d'arma (per chiarezza ricordiamo che ciò significa, per i dati di competenza della legge 185/90, la concessione di conti correnti su cui far arrivare i pagamenti delle forniture) si va ad intensificare la tendenza degli scorsi anni.
Nella propria relazione, che fa parte del gruppo raccolto dalla Presidenza del Consiglio per la presentazione al Parlamento, il Ministero dell'Economia anzi sottolinea con una certa soddisfazione di aver registrato un "trend positivo rispetto al 2010, con un incremento del valore complessivo autorizzato pari a circa il 14 per cento".

La movimentazione finanziaria totale è stata di oltre 4 miliardi di euro, dei quali 2,5 relativi ad operazioni di esportazione (definitiva e temporanea) e i restanti 1,5 derivanti da importazioni di materiale d'armamento. Circa 113 milioni di euro sono finiti nelle tasche degli intermediari di questo tipo di commercio.
Ma quali sono le banche coinvolte? Come per il passato c'è una concentrazione di operazioni su alcuni soggetti ben determinati: se guardiamo alle sole esportazioni definitive, sei istituti bancari hanno da soli movimentato l'80% (cioè 1900 milioni di euro) dei flussi. Da notare qui una frase che ci pare errata nella relazione del Ministero, e cioè quella che afferma che cinque banche da sole hanno il 40% delle autorizzazioni totali con 1,6 miliardi di controvalore, che in realtà equivale a circa il 67%.

Per numero di autorizzazioni è Deutsche Bank a fare la parte del leone (345 su 881) attestandosi come importi autorizzati su circa 665 milioni di euro (lo scorso anno erano 836). Se consideriamo le singole banche il colosso tedesco è saldamente in testa alla classifica, ma se invece sommiamo i valori di istituti appartenenti allo stesso gruppo è ancora l'alleanza BNP Paribas e BNL a prendersi l'onore del primo posto. La succursale italiana della banca francese ha avuto autorizzazioni per un importo di 491 milioni di euro (96 autorizzazioni rilasciate e un calo dagli 862 dello scorso anno) mentre la controllata BNL si porta in casa 223 milioni di euro (più del doppio del 2010) con 57 autorizzazioni. In pratica una redistribuzione interna di autorizzazioni. Sopra i 100 milioni di euro altre due banche estere come Barclays Bank (185 milioni) e Credit Agricole (175 milioni) mentre per i colossi di casa nostra (tra l'altro partecipanti a percorsi di trasparenza importanti e ben strutturati) troviamo dati abbastanza divergenti. Se gli sforzi degli ultimi anni di uscita dalla lista di IntesaSanPaolo paiono coronati da successo (solo 1 autorizzazione per 4.000 euro nel 2011) è Unicredit ad avere "in pancia" ancora diverse operazioni: considerando anche i dati della divisione "Corporate" sono state autorizzati 65 incassi per un controvalore di circa 180 milioni di euro.banca armata
Tra le banche territorialmente legate alla produzione di natura militare vanno poi elencati il Banco di Brescia (17 autorizzazioni per 120 milioni), la Banca Valsabbina (20 autorizzazioni per 67 milioni) e la Cassa di Risparmio della Spezia (73 rilasci per 52 milioni di importi autorizzati).

Più ridotti sono gli importi relativi alle autorizzazioni per esportazioni temporanee, ma anche qui è Deutsche Bank a prendersi gli "onori delle cronache" con il 60% del totale dei flussi certificati dal Ministero. I dati dell'Economia forniscono poi grafici e tabelle relativi alle aree geografiche da cui provengono i pagamenti per le esportazioni definitive (quasi il 50% per paesi OSCE e America settentrionale, oltre il 40% verso Africa, Asia e Medio Oriente) che però sono poco significativi. L'analisi delle destinazioni ha molto più senso al momento dell'autorizzazione di partenza, dove si gioca veramente la scelta politica e non solo la realizzazione operativa di qualcosa già deciso.
Forse può essere maggiormente interessante andare a vedere quali aziende hanno percepito incassi reali nel corso del 2011, sempre sulla base di autorizzazioni alla contrattazione ed alla vendita ricevute negli anni precedenti. Anche i flussi finanziari confermano che il comparto più in salute della nostra industria a produzione militare è quello aeronautico: Agusta e AgustaWestland (elicotteri, per quasi 829 milioni), AleniaAermacchi (aerei, 200 milioni) e Avio (motoristica per aerei, 145 milioni) da sole si sono prese il 48% degli incassi dell'anno. Più a distanza il comparto navale con Orizzonte Sistemi Navali (352 milioni da una sola fornitura, all'Algeria) e Whitehead Alenia Sistemi Subacquei (95 milioni); da menzionare anche Oto Melara (cannoni e artiglieria) che ha portato a casa 124 milioni di euro da 147 diversi incassi e soprattutto Fabbrica d'Armi Pietro Beretta (38 milioni) e Fiocchi Munizioni (5 milioni). Non traggano in inganno gli importi bassi: una pistola, un fucile o un proiettile non costano come un elicottero ma il loro impatto in giro per il mondo può essere ancora più devastante.

Tutto ciò deriva da un'analisi di primo livello della Relazione al Parlamento, che come detto è una prescrizione della legge 185/90 (emendata nel 2003) che mira a raccogliere e mettere a disposizione di Deputati e Senatori (anche se paradossalmente poi chi la legge sono soprattutto i disarmisti…) un serie di documenti prodotti dai Ministeri coinvolti nel percorso di vendita dei nostri sistemi d'arma. Una mole di dati come al solito impressionante anche se, ancora una volta, ciò non coincide con una migliore trasparenza e conoscenza. Mai come in questo caso, in assoluta continuità con il recente passato, la copiosa presenza di numero significa opacità e difficoltà di lettura. Cosa potrebbe capire da una relazione del genere un Parlamentare, che per legge sarebbe chiamato a controllare l'operato governativo sulla vendita di armi, sollecitato da mille altri tematiche e posto di fronte a degli aspetti altamente tecnici? Come si può considerare atto di trasparenza la diffusione di una Relazione di oltre 2500 pagine in forma cartacea o, quando lo sarà anche in formato digitale, tramite un file Pdf senza alcuna possibilità di ricerca per numero o termine perché composto a partire da scansioni e non da una esportazione proveniente dai file di base?

Nonostante questo le organizzazioni del mondo del disarmo continuano ad auspicare una discussione dei dati della Relazione in sede parlamentare, anche con l'aiuto delle analisi proposte da chi queste numerose pagine ha la pazienza di leggersele. L'analisi tratteggiata qualche riga sopra, al di là di tutti i numeri forniti, è comunque parziale e per propria natura incompleta. Non esistendo una fonte di dati che fornisca un collegamento diretto tra l'autorizzazione di incasso ad una banca al paese/arma/azienda a cui esso si riferisce, è difficile ad un primo occhio capire che tipo di transazione sia stata appoggiata dalle diverse banche, e quali sistemi d'arma le nostre industrie abbiano fornito in tutto il mondo. Il che conferma la poca trasparenza di cui ci si lamenta da tempo, richiamata fin dall'inizio.
A queste obiezioni sull'accesso reale ai dati rilevanti di questo comparto spesso i rappresentanti del Governo rispondono che non c'è alcuna opacità e che in realtà tutto quanto si può raccogliere a livello di informazione viene fornito con il massimo dettaglio. Se preso alla lettera ciò è vero: anche nella Relazione di questo anno esiste una precisa e grossa tabella relativa agli incassi riferiti alle singole autorizzazioni concesse dal Ministero degli Esteri, compreso il paese di destinazione. Peccato che per riuscire a capire a quale reale fornitura questi dati si riferiscano (chi ha venduto? che tipo di armamento?) e quale sia stato l'istituto di credito di appoggio occorra incrociare (sperando nella fortuna) le diverse altre tabelle fornite. Con l'obbligo di tenere in considerazione anche quelle degli anni passati!
Una follia: basterebbe infatti fornire un'unica tabella proveniente da unico database, dal quale ciascuno potrebbe aggregare a piacimento i dati complessivi di interesse. Non dovrebbe essere difficile, nel 2012 e in piena era informatica.


 

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Ecco la tabella riassuntiva degli incassi autorizzati (per esportazioni definitive sopra i 5 milioni complessivi per istituto)

ISTITUTO AUTORIZAZZAZIONI IMPORTI
Deutsche Bank 345 664.433.783 €
BNP Paribas Italia 96 491.388.309 €
Banca Nazionale del Lavoro 57 222.975.288 €
Barclays Bank 25 184.959.352 €
Credit Agricole 3 174.565.969 €
Unicredit spa 55 169.282.325 €
Banco di Brescia 17 119.866.736 €
Natixia Sa 12 69.732.801 €
Banca Valsabbina 20 67.047.638 €
Cassa di Risparmio della Spezia 73 51.979.437 €
Banca Popolare Commercio e Industria 6 43.473.615 €
CommerzBank 33 33.978.166 €
Banco di Sardegna 13 25.744.801 €
Banca Popolare dell'Etruria e del Lazio 4 10.967.544 €
Unicredit Corporate Banking 10 8.970.467 €
Banco di San Giorgio 9 8.508.080 €
Banca Carige 24 7.724.478 €
Banco Bilbao Vizcaya 8 6.410.004 €
Societé Generale 2 5.216.236 €